LA MERIDIANA DELLE FRAGOLE di Benedetta Tarducci

I petali volteggiavano con movimenti morbidi e leggeri, brisés impalpabili, fluide glissades seguite da pirouettes di grande effetto o rapidi fouettés, via via che il divertissement aumentava in ritmo e in numero di interpreti. Tutto era pronto per introdurre la scena successiva, punto incandescente del secondo atto.

Ed eccola finalmente, l’étoile, la protagonista assoluta. L’ingresso rapido, i movimenti angolosi e privi di virtuosismi tecnici non facevano che rimarcare la regalità del passaggio. La luce entrò in scena, elegante ed energica, nella meraviglia di un altero arabesque allungato, per poi scomporsi, come attraverso un prisma di vetro, in tutte le sue componenti monocromatiche. Dal rosso al violetto, l’intero spettro di colori, in ginocchio, pareva renderle omaggio, in un tripudio di sfumature euforiche e solenni.

Potevo percepire tutta la Magia del momento. Era appagamento assoluto, estasi pura.

Con lo sguardo fisso sulla meridiana, accompagnai il Sole uscire dall’occhio della lemniscata. Nel clamore degli applausi, la Stella aveva lasciato il palcoscenico. 

Di lì a poco, piano piano, l’intero corpo di ballo la seguì dietro le quinte. Calato il sipario, lentamente, abbozzai un pigro ritorno alla realtà.

Ricoperta di fiori, sui vestiti, nei capelli, potevo ancora percepire le vibrazioni dell’esperienza quasi mistica appena vissuta. Rimasi immobile ad ascoltare la seconda parte della lezione, che proseguì per oltre mezz’ora con dettagli tecnici assai particolareggiati, dei quali però ho solo un vago ricordo.

Dopo l’ovazione finale restai seduta sul prato a fissare la meridiana, cercando di trattenere ciò che rimaneva dell’emozione assaporata poco prima e sperando che una nuova folata di vento la riAnimasse. Ma ormai la canicola estiva aveva preso il sopravvento, costringendo all’immobilità totale l’intero paesaggio. Erano passate da poco le due quando mi decisi a tornare a casa.

Trascorsi il resto della giornata sul divano a fare niente.

Dopo cena mi ricordai del mio pseudo-appuntamento. Non avevo nessuna voglia di andare. In fondo quella biondina logorroica, di cui proprio non riuscivo a ricordare il nome, era sparita senza nemmeno salutarmi. Ma non è da me mancare agli appuntamenti e alle nove e quindici, puntuale, arrivai in piazza.

Lei mi aspettava seduta sul bordo della fontana. Eravamo vestite in modo sorprendentemente simile, però secondo tonalità differenti. Il mio azzurro mare contro il suo verde mela, ma nessun colore fagocitava l’altro, piuttosto lo esaltava. L’armonia cromatica, preludio di affinità temperamentale, ci mise subito a nostro agio.


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«Ciao. È molto che aspetti?»

Scattò in piedi, quasi stupita di vedermi. «No… qualche minuto.»

«Dove sei finita oggi?»

«Sono dovuta scappare via sul più bello. Il mio cellulare ha squillato proprio durante il solstizio…»

«Non l’ho sentito.»

«Già, ho visto che eri strana. Sembravi… ipnotizzata.»

«Addirittura? Forse un calo di pressione… ma ora sto bene!»

Dopo due ore e due pinte di birra decidemmo di sgranchirci un po’. Mi sembrava di conoscerla da sempre. La sorella che non avevo mai avuto. Credo che per lei fosse lo stesso. Chi lo avrebbe immaginato? Eppure non avevo ancora avuto il coraggio di confessarle che non ricordavo il suo nome.

A un tratto si fermò. «Ti va di tornare al cortile di Economia?»

«Adesso? La Facoltà è chiusa.»

«Non è un problema. Fidati.»

«Vorresti introdurti di notte in un edificio pubblico? Sei pazza! E se ci scoprono?»

«Immagino che tu sappia correre» replicò. «Dài che un po’ di adrenalina non può che farti bene!»

L’idea era talmente assurda che accettai. A dispetto dell’immagine noiosamente british che mi ero imposta.

Entrare dai vicoli sul retro fu più semplice di quanto credessi. Il giardino era illuminato da alcuni lampioni posti su un lato. Ci sedemmo sul prato ed io accesi una sigaretta.

Udivo uno strano rumore di fondo. «Senti…?»

«Cosa?»

«Delle voci…» continuai. «Arriva qualcuno!»

«Io non sento nulla.»

Ero sicura di udirlo, un vocìo sommesso, indefinibile, flebile ma ben presente. Poi un ronzìo. Un ronzìo sempre più forte e persistente.

«Questo lo senti?»

«Sono soltanto i lampioni che friggono…»

Improvvisamente il buio.

Ma fu un attimo. Perché bastò sollevare lo sguardo per vederla. Grande, grandissima, non ancora completamente piena ma ugualmente armoniosa. La Luna era uno spettacolo.

Il giardino, nuovamente illuminato, sembrava volerci svelare i suoi misteri.

Senza la luce artificiale ad intimorirle, un esercito di lucciole prese possesso del prato. Intrapresero una bizzarra coreografia di iridescenze intermittenti. Brillavano intensamente in un susseguirsi di sincronie, alternandosi le une alle altre. Uno straordinario spettacolo di bagliori e scintillii.

Poi le vedemmo addensarsi in un punto, come impazzite.

La mia incauta amica si avvicinò curiosa. «Dammi una mano. Prendi un bastone anche tu e aiutami.»

Vidi che ai piedi del tiglio, quasi ad aspettarmi, era sistemato un bel rametto, non troppo lungo, ma abbastanza diritto e robusto. Lo raccolsi e mi diressi verso la nuvola di lucciole. «Allora… cosa succede?»

«Guarda… tra le foglie…»

«Non vedo niente!»

«Guarda con più attenzione…»

Avvicinai la testa al nugolo di luce e senza neanche rendermene conto ne fui travolta.

Una spirale luminosa si era innalzata dal terreno e mi stava ruotando intorno vorticosamente, cambiando forma in continuazione. Ero pietrificata, circondata da un turbinìo di scintille. Il bagliore si intensificava soprattutto in prossimità della punta del bastone che avevo appena raccolto. Non so bene perché ma lo sollevai in aria. Fu l’apoteosi.

Dalla sua punta svettava, trionfante, diretta verso il cielo, una scia di lampi che, ricadendo a cascata tutt’intorno, inondava di bagliori il giardino. E non si trattava certo di semplici lucciole, ma di un vero e proprio spettacolo pirotecnico. Sublime e inspiegabile, come quello di poche ore prima.

«Ma cosa diavolo…» Sconvolta ed eccitata al tempo stesso, mi voltai verso la mia temeraria complice ancora priva di nome. Anche lei, circondata da una miriade di guizzi luminosi, aveva in mano un rametto che brillava vistosamente, soprattutto sulla punta, dorata, abbagliante. Sentii di nuovo la sensazione di benessere avvertita durante il giorno prendere il sopravvento. Mi arresi completamente.

Ripresi i sensi sotto la luce biancastra dei lampioni, di nuovo perfettamente funzionanti.

«Come va?» sentii chiedere pianissimo. «Ti sei sentita male un’altra volta… mi hai proprio spaventata!»

«Ho fatto un sogno strano…»

«Riesci ad alzarti?»

«…ho sognato che… che eri una Fata…»

«Sì, sì, va bene… hai battuto la testa… come ti senti?»

«…con tanto di bacchetta magica…»

«Ovvio, e c’erano Elfi e Folletti che mi danzavano intorno. Dài, andiamo via da qui!»

Stranamente mi alzai senza fatica. Ero piena di energia. Scavalcammo in fretta il muretto e ci dirigemmo verso la mia macchina parcheggiata non troppo lontano.

«Te la senti di guidare? Vuoi che ti accompagni?»

Figuriamoci. Tutto ciò che volevo era andarmene a letto il più in fretta possibile. «No… no. Poi come torni a casa? Non preoccuparti… non è un viaggio lungo.»

«Ok. Però fammi uno squillo quando sei arrivata» insistette, più per educazione che per altro.

«D’accordo… certo che sei peggio di mia mamma!» Misi in moto, un ultimo cenno di saluto, e partii.

Arrivai a casa senza problemi. Feci lo squillo come promesso e filai a letto.

Il giorno seguente dormii fino a tardi. Mi svegliò il campanello. Un’armata di parenti invase casa.

© Christine Kaminski | Vietata la riproduzione senza consenso scritto

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