Baruba e Neve, la storia del coniglietto che rese santa la Pasqua

L’alba s’elevava pigra, e i primi raggi di sole indugiavano sulle foglie irrorate di rugiada. All’orizzonte una chiarità tipicamente primaverile annunciava il dì canterino, rilucente di allegrezza e fervore. Tutti gli animaletti della foresta eran gioiosi, saltellanti e in poderoso fermento per quella che sarebbe stata la Festa di Primavera, una Primavera inoltrata che di già scaldava coi suoi nitori dal giallo oro vivificante, dando le spalle all’inverno e agli ultimi strascichi di una gelida stagione che, ahimè, non aveva risparmiato molte delle creature del bosco, per la rigidità di un tepore inesistente e la carenza di cibo di cui la Natura, nel suo lungo torpore ristorante, non era stata prodiga per gli esseri più deboli e fragili.

La Festa di Primavera era, oltreché un’annunziazione della bella stagione a venire, anche un modo per celebrare coloro che non eran sopravvissuti, una sorta di commemorazione per dispensare calore agli Spiriti, per esprimere un amore che non di certo sarebbe perito, in seguito a tali tragiche fatalità.

Anche noi Umani festeggiamo la Festa di Primavera, ma non ne abbiamo cognizione. La confondiamo con la Pasqua religiosa, la resurrezione di un Dio tanto caro agli uomini, ma anche una resurrezione personale, in ciascuno di noi, un nuovo inizio per poter rinnovare il nostro Spirito, anno dopo anno, vita dopo vita.

coniglio-pasqualebQuell’insolitamente soleggiato mattino, dopo tanti giorni di pioggia e di freddo pungente, il coniglietto Baruba saltellava più del solito, così felice che la sua famiglia fosse uscita indenne dall’algido periodo appena trascorso, tanto felice e spensierato che senza avvedersene si appressò ad un grosso casolare, al di là del bosco, su una lunga distesa campestre che ospitava ogni genere di piante e di frutteti. Era immenso, a tal punto che il perdersi sarebbe stata cosa certa, ma la gioia che percepiva era così coinvolgente che decise di avventurarsi. Magari avrebbe trovato qualche buona carota, dall’arancio vivo e succulenta, per poter dare il suo contributo al convivio del bosco.

«Fermo, sciagurato!» udì strepitare d’un tratto, e il coniglietto, bianco come latte, si mise sulle sue zampette posteriori ed iniziò a scrutarsi d’attorno.

A tutta prima non adocchiò alcunché, indi per cui ricadde a terra con le zampe anteriori e si apprestò a scattare verso la campagna.

«Ah! Questi giovani incoscienti!» udì di nuovo, e di nuovo si bloccò.

«Chi sei?» domandò molto incuriosito.


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«Sono sopra la tua testa, alza lo sguardo e mi vedrai.»

Baruba sollevò il musetto in corrispondenza di un’enorme sequoia, altissima nel tronco, pressoché infinita tanto da sembrare direttamente collegata al cielo, e da un ramo della folta chioma dell’albero vide spuntare un becco nero, nero nero come la notte, seguito da un piumaggio ancor più nero che, con l’ombra delle foglie di un sole ancora basso, pareva un pochino inquietante.

«Da dove vieni?» insisté Baruba, dacché quella specie di corvo non parlava.

«Io sono il Terzo Spirito, lo Spirito della Notte» disse finalmente il corvo, stendendo le sue aitanti ali per batterle una volta in segno solenne.

Il niveo coniglietto storse la bocca un po’ smorfieggiante. «Perché il terzo?»

«Il Signore dell’Universo è il primo Spirito, al disopra di Bene e Male, e sotto di lui ci sono lo Spirito del Bene e lo Spirito del Male. Io sono un riflesso del Terzo Spirito.»

Era ancora dubbioso. «Ma tu, se sei uno Spirito come farei io a vederti? E perché compari di giorno se il tuo mondo è la notte?»

«Io sono onnipresente, compaio e scompaio a dovere, quando c’è bisogno di me» gracchiò la tetra creatura, visibilmente infastidita che il coniglio non lo conoscesse, che non conoscesse nemmeno il suo onorabile, seppur lugubre compito.

«E cosa dovresti fare in un giorno di festa come questo?» si preoccupò un po’ timido, timoroso che quello Spirito portasse con sé anche la morte.

«Devo fermare te.» Secco e conciso.

«Me?» rifece l’animaletto, ora sbalordito sul serio.

«Se attraverserai il confine incrinerai l’equilibrio delle cose, l’equilibrio su cui si poggia l’Universo. Non devi assolutamente avvicinarti a quella fattoria» gli spiegò, pur restando sul generico.

«Oh!» Baruba arrossì. «Ti giuro che non sono un ladro, ma pensavo che qualche carota piantata dagli uomini non facesse granché differenza, non credevo di fare tanto danno…»

«Carota o non carota, tu non ti devi avvicinare» gli ordinò esplicitamente, stavolta perentorio. «Esistono degli equilibri che non si devono spezzare, gira al largo dalla fattoria e soprattutto dalle stalle, lascia che la storia segua il suo corso, altrimenti sarai tu a pagare, per tutti loro.»

«Loro chi?» si stupì totalmente ignaro. «E poi come fai, come fai a sapere quel che farò?»

«Io prevedo e provvedo.» Il suo gracchiare si fece maggiormente spettrale. «E ora va’, torna dalla tua famiglia e dimentica di avermi incontrato.»

«Ma…» Baruba era sul punto di obbiettare ma non fu in grado di proseguire con la sua protesta, in quanto il corvo sparì in una nuvola di fumo nero.

© Christine Kaminski | Vietata la riproduzione senza consenso scritto

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