L’ORSO E L’ORCA di Lidia Marsili

In una splendida e maestosa foresta viveva un grande orso bruno. Manitù, così si chiamava l’orso, amava scorrazzare lungo i sentieri della foresta, di cui conosceva tutti segreti. Non c’era luogo che lui non conoscesse.

Quando qualcuno, animale o uomo che fosse, si perdeva tra gli alberi secolari, Manitù, dotato di un sensibile intuito, correva in suo aiuto, riuscendo sempre a ricondurre il disperso lungo il sentiero principale.

Tutti lo conoscevano e lo ammiravano, eppure nessuno osava avvicinarglisi più di tanto, giacché Manitù era sempre “altrove”. Nonostante amasse la foresta, Manitù avvertiva dentro di sé un desiderio struggente ed incontenibile verso ciò che questa non riusciva a trattenere: si sentiva inesorabilmente attratto dall’acqua.

Si accostava spesso alle sorgenti e ai torrenti e ne seguiva incantato il corso. Le prime volte, ai tempi in cui era stato un cucciolo inconsapevole, aveva tentato di arrestarlo, il corso dell’acqua, imitando i castori che, instancabili, costruivano dighe, tuttavia si era presto reso conto che la forza dell’acqua risiedeva nella sua inafferrabilità e nella sua capacità di assumere qualsiasi forma.

Manitù percepiva che, pur essendo una creatura di terra, le sue radici affondavano nella materia liquida.

Quando, seduto sul bordo di un torrente, il suo sguardo si perdeva nei mulinelli vorticosi che si formavano per le resistenze che l’acqua incontrava sul suo percorso, si sentiva ghermire dal rimpianto per quello che avrebbe potuto essere e che, invece, non era. Avrebbe desiderato essere un luccio, un salmone, una trota, per lasciarsi trascinare dal flusso dell’acqua… Oh, certo, gli alberi, le grotte, gli anfratti della foresta costituivano per lui un rifugio ma la carezza dell’acqua era più “avvolgente” di qualunque altra cosa. Per questo gli altri animali lo rifuggivano, ritenevano pericoloso il suo anelito di inafferrabilità.

Durante le sue peregrinazioni solitarie, un giorno Manitù si spinse al limitare della foresta. Non si era accorto di dove fosse finché un intenso bagliore non gli aveva ferito lo sguardo. Dinanzi a lui si estendeva un’immensa ed incontrollabile distesa d’acqua illuminata dal sole: il mare. E allora capì perché, fino a quel momento, non era riuscito ad arrestarsi: DOVEVA arrivare fin lì…

Immobile, tutto il suo essere fu catturato dalla sottile linea dell’orizzonte e da un richiamo irresistibile, diverso da quelli a cui finora era stato abituato. Un suono gutturale gli giunse dalle profondità dell’acqua, sino a che non vide emergere dalle onde un meraviglioso e terrificante animale nero e bianco, dalla pelle lucente e dallo sguardo profondo come gli abissi marini da cui si sentiva attirato… Manitù non si scompose, riconobbe quella creatura perché l’aveva incontrata spesso nei suoi sogni.

Nel bel mezzo dello sconfinato oceano, dove aveva visto la luce, Menea aveva fino a quell’istante trascorso la sua vita inseguendo delfini, foche e balene. Stava bene nell’acqua, Menea… l’acqua accarezzava la sua pelle e l’avvolgeva come un guanto, ma anche lei non era pienamente soddisfatta della sua vita.

Sovente, soprattutto durante l’alba e il tramonto, affascinata dai giochi di luce abbandonava la sua imponente corporatura ai capricci della corrente e lasciava vagare la sua mente.


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“Cosa ci sarà oltre l’orizzonte?” si chiedeva Menea spingendosi in là, sempre più in là nel tentativo di raggiungerlo e di scoprire cosa ci fosse oltre esso. Ma l’orizzonte era stranamente mobile e non finiva mai… Ogni volta sperava di raggiungerlo ed ogni volta era costretta ad ammettere che non era dove si era spinta, nella certezza di trovarlo. Nuotava Menea, nuotava con vigore e si muoveva lasciando dietro di sé una lunga e sinuosa scia di spuma… Talvolta spostava all’indietro il suo grande capo e si accorgeva di aver lasciato indietro i suoi compagni, che non ce la facevano a seguirla nelle sue peregrinazioni e che la ritenevano un’illusa.

Più volte sua madre l’aveva avvisata che non era possibile raggiungere l’orizzonte. Incurante ed ostinata, lei insisteva a solcare acque lontane, nella convinzione che la fluidità dell’acqua non fosse l’Universo e che ci dovesse essere qualcosa di diverso, di meno inarrestabile, di meno capriccioso. E, sicuramente, questo qualcosa era oltre l’orizzonte.

Nei suoi viaggi non aveva incontrato unicamente acqua o pesci, si era anche imbattuta in cose che non avevano l’inconsistenza dell’acqua. Erano cose “dure” a cui non sapeva dare un nome, e che altre creature, con le quali lei non aveva familiarità, chiamavano tronchi, navi, zattere… Queste strane cose, estranee al mare, le evocavano mondi sconosciuti e il desiderio di qualcosa di fermo al quale aggrapparsi, di “radici”, avrebbe pensato, se solo avesse conosciuto il termine. L’acqua la spingeva sempre in avanti e niente la induceva a fermarsi.

© Christine Kaminski | Vietata la riproduzione senza consenso scritto

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