L’INCANTESIMO DELLA CLESSIDRA ALLA FONTANA DEL FERRO di Beatrice Maschietto

Nel cuore di Verona, sul colle di San Pietro, si inerpica una stretta stradina costeggiata da porzioni di mura medievali. Sulla sua sommità, a circa quattro metri da terra, sulla destra, nel punto in cui la parete di roccia arenaria digrada bruscamente si dischiude una rientranza semicircolare.

Salendo undici gradini di pietra sconnessa, in cima ai quali si protendono i tentacoli acuminati di una maestosa agave centenaria guardiana del luogo, si accede a un terrapieno; quindi, con altri tre bassi scalini, ci si trova dinanzi alla semigrotta nota come “La Fontana del Ferro”.

Escluso qualsiasi riferimento a qualità organolettiche dell’acqua, si dice che il luogo fosse dedicato alla Dea della Rinascita Feronia, o Fers, e che fino in tempi recenti fosse tradizione festeggiarvi il Solstizio d’Estate.

Ma la brezza che soffia dal colle nelle notti di plenilunio racconta un’altra storia…

Nei tempi lontani di Re, Stregoni e Cavalieri, da quella balza oggi inaridita sgorgava una sorgente d’acqua limpida e ciarliera, che dissetava l’intera popolazione e rendeva rigoglioso e ameno il paesaggio circostante. Un brutto giorno, però, il potente Mago del Tempo lanciò su quel sito un terribile maleficio…

In una mattina di inizio estate Chiaraluce, fanciulla di umili vestimenti ma non servile nel portamento, con una fierezza indomita che traluceva dai grandi occhi verdi, risaliva con una pesante brocca sul capo il ripido pendio del colle, per portare acqua al castello del Re.

Un giovane Cavaliere di nome Tebeo, al contrario, scendeva di gran carriera lo stretto sentiero. Non avvedendosi di Chiaraluce, vi si scontrò, facendo rovinare a terra il recipiente e spandendone il prezioso contenuto.

«Ehi, che modi! E chi lo sente ora il mio padrone?»

Tebeo borbottò frettolosamente qualche parola di scusa.

«No, Cavaliere, voi non capite, non ci sono altre sorgenti nei dintorni e una maledizione incombe sulla fonte e sul nostro borgo. Moriremo tutti di sete! Il Re ha promesso oro e feudi a chi saprà rompere il sortilegio:

Sarà arsura di sorgente arida,
come inariditi sono gli animi umani,
finché la Grande Clessidra non smetterà di rubare il suo tempo
perché il pianto di un cuore incorrotto ridarà vita alla Terra.


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Osservate là, nel fianco della collina: la clessidra affiorata per magia dalla roccia ruba l’acqua alla fonte, misurando con essa lo scorrere di questi tempi scellerati. La sorgente asciuga ogni giorno di più, goccia dopo goccia, minuto dopo minuto.»

La fantasia di Tebeo s’incendiò, alimentata dalla brama di denaro e di potere, ed egli si raffigurò come l’uomo più ricco e temuto del Regno. Di media statura, snello ma non atletico, piacente ma non bello, era avvezzo a celare sotto modi da gentiluomo una propensione al rampantismo unita ad una buona dose di cinismo, che gli avevano consentito in breve tempo di ascendere, da umile servitore, al rango di Cavaliere del Re. Senza remora alcuna, architettò di servirsi della giovane per riuscire a sciogliere l’incantesimo.

«Attendete qui, tornerò presto» la blandì con voce suadente. Si allontanò a cavallo verso la bottega di un vasaio, acquistò una brocca, raggiunse a spron battuto una gola tra monti lontani solcata da un torrente, attinse l’acqua e tornò indietro.

Alla vista del Cavaliere con il prezioso contenitore colmo, Chiaraluce provò un sentimento di riconoscenza e di ammirazione insieme. «Come posso ringraziarvi, mio salvatore?»

«Vediamoci qui domani all’alba. Voglio saperne di più sulla maledizione della fonte.»

Così iniziarono a vedersi furtivamente dacché lui, uomo di rango, non gradiva di accompagnarsi in pubblico con una serva. Ma, incontro dopo incontro, sotto l’effigie della clessidra che continuava a rubare acqua alla fonte e tempo alle loro vite, tra i due sembrò affiorare un sentimento, un nonsoché di misto tra confidenza ed emozione, che fece palpitare il cuore di Chiaraluce.

Una sera di fine estate, al cospetto di uno sgargiante arcobaleno che gli ultimi raggi di sole generavano dalla fonte ormai ridotta a rigagnolo, Tebeo si lasciò andare ad un moto di affetto cingendo la fanciulla impaurita tra le sue braccia e, dai grandi occhi di Chiaraluce, luminosi come smeraldi, sgorgarono lacrime di emozione che, gocciolando a terra, diedero forma ad una minuscola pozzanghera.

Si udì un fragoroso tuono, e sabbia liquefatta prese a fuoriuscire da una crepa modellandosi in una meravigliosa Calla palustris (letteralmente, “Calla di palude”), con infiorescenze avvolte da un’ampia brattea di colore bianco e grandi foglie carnose a forma di cuore; protendendosi verso la clessidra nella roccia, esse ne trasformarono magicamente il fluente contenuto in sabbia (da qui l’origine del termine clepsamia, per indicare una clessidra a sabbia), mentre la sorgente riprendeva vita e vigore.

Come predetto, il pianto di un cuore incorrotto percosso da Amore aveva rianimato la Terra.

Alla realizzazione del prodigio, Tebeo reagì però con inaspettata violenza: respinse la fanciulla con fare assai brusco, si avventò sul fiore, lo strappò e corse in direzione del castello per reclamare al Re la sua ricompensa.

Chiaraluce rimase addolorata e disillusa a contemplare lo scempio di tanto Amore, accarezzando le foglie cuoriformi sulle quali si distendevano le sue ultime gocce di pianto.

Ma il Mago del Tempo, Signore della Clessidra, non riuscì a sopportare un simile strazio: un Amore forte quanto innocente aveva annientato il maleficio, tuttavia quelle lacrime erano state estorte con l’inganno, violando tutte le Leggi Umane e Divine.

Decise così di punire tanta tracotanza. Le fiamme avvolsero d’improvviso Tebeo che, giunto in cima alla rocca, fu sbalzato all’indietro, rotolò fino al limitare del laghetto originato dal pianto di Chiaraluce e fu tramutato in una cannella di ferro, decorata all’attacco della roccia con un fiore di pietra, una splendida calla dalle foglie verdi e lucide come i grandi occhi piangenti della fanciulla tradita.

«L’acqua scorrerà dentro di te come nella Grande Clessidra» tuonò il Mago «rammentandoti goccia dopo goccia, attimo dopo attimo, le lacrime di Chiaraluce, e tu pregherai che la fonte non inaridisca, come arido è il tuo cuore, perché altrimenti nessuno si recherà più qui, non sbocceranno fiori e tu rimarrai solo, con il tuo eterno supplizio.»

Per molti anni la fanciulla, inconsolabile per la fede perduta, tornò ogni giorno alla fonte ad attingere l’acqua e a pulire la cannella dalle erbacce incombenti, e finché ella fu in vita quel luogo fu un magnifico giardino fiorito, giacché le sue lacrime seguitarono a nutrire la Terra nel ricordo sempre vivido di quell’abbraccio illusorio.

Poi tutto finì, lo spirito di Tebeo rimase tristemente solo. Dalla cannella di ferro smise di sgorgare acqua, il giardino inaridì e solamente un’agave minacciosa vi prese fissa dimora, cerbero della fonte, quasi a scoraggiare gli Umani dall’avvicinarsi.

Capita talora, nel surreale chiarore di una notte di plenilunio, che dalla roccia sovrastante la Fontana del Ferro si possa veder affiorare una clessidra e che un lamento riecheggi dal suo interno, diffondendosi magicamente nell’aria: è lo spirito di Tebeo lì intrappolato, che piange il suo tempo, quello passato, e quello che non avrà mai fine.

Dedico questa fiaba al mio amico Dario, scomparso prematuramente, affinché – come dice Proust – con la scrittura si fissi in eterno il suo ricordo, e i suoi cari possano ritrovarlo per sempre nella brezza magica che, dalla Fontana del Ferro, soffia lieve e consolatoria fino a loro.


© Christine Kaminski | Vietata la riproduzione senza consenso scritto

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