LA FATA E IL GATTO di Luisa Gentile

Sono le Streghe, ad essere notoriamente amiche dei felini, ne hanno un rapporto pressappoco simbiotico e si direbbe quasi che non possano esistere le une senza gli altri.

Così ci hanno insegnato, o più che altro propinato, eppure le Fate, amiche della Natura tutta, sono anche molto amiche degli animali, forse un po’ dispettose a volte, con i loro amici animali, ed in effetti in alcuni casi non si potrebbe parlare di vera e propria amicizia, giacché spesso e volentieri le Fate sfruttano le sembianze degli animali e li usano per i loro scopi.

A maggior ragione, si può affermare allora che la vera ed un’unica amica del gatto è la Strega, hanno un rapporto paritario e si potrebbe dire che si amano alla follia. Il loro è un mondo tutto da scoprire.

Questa è la storia di una Strega che fu trasformata in Fata, come avvenne non lo so, e neanche per quale oscuro motivo… forse perché come umana non si trovava bene nel mondo, o forse puramente perché aveva un Destino superiore e gli Spiriti della Natura le concessero questo grande privilegio. Una cosa eccezionale, mai vista, giacché le Fate sappiamo che non sono fatte di materia, ma di pura energia, ed una trasformazione fisica di tale portata è un evento più unico che raro, naturalmente impossibile.

Inoltre, la sua trasformazione non consisteva solo nel mutamento della sua fisicità, bensì anche del suo carattere e della sua visione del mondo, ora incantato, ma sempre magico. Una cosa, però, rimase invariata: l’Amore per il suo gatto.

Successe, allora, una cosa stranissima… che nel momento dell’incanto anche il gatto fu colpito da raggi mistici e, pur rimanendo fisicamente un felino, ebbe il dono della parola, effetto collaterale fu dotato di sentimenti umani. Forse quei sentimenti che erano stati prelevati alla Strega ed erano passati a lui.

E fu così, che il gatto s’innamorò della bella Fata, ma che fare? Ormai la Fata non era più umana, ed esso non poteva quindi richiedere di farsi trasformare in umano, per poterla amare come il più tenero degli uomini. Questo era il loro Destino, un Amore che non si toccherà mai, che vivrà per sempre, in eterno oltre i secoli. Ma la separazione era reale, incrollabile, perché la Fata aveva un compito, un compito che le era stato assegnato per ricambiare in parte il desiderio che le era stato realizzato.

Essa doveva percorrere le vie notturne, nella sua invisibile parvenza, per dare sostegno agli umani che non avevano casa. Voi pensereste, era la Fata dei clochard? All’incirca. Doveva rischiarare le loro notti, non farli sentire soli, doveva donare loro calore e compagnia, la sottile certezza che vi fosse qualcuno a vegliare su di loro.

E, ovviamente, la Fata non poteva portare con sé il gatto, suo inseparabile amico da sempre, lei che da umana lo aveva portato con sé ovunque andasse. Era questo il prezzo più alto che doveva pagare, non la sua missione, non la rinuncia alla sua “umanità”, bensì la separazione dal suo amatissimo gatto.

Il gatto, dal canto suo, era disperato, perché si sa, l’Amore “umano” è diverso dall’Amore animale, ha bisogno di vicinanza, di contatto, di ripetute rassicurazioni, esternazioni, ed in tal modo si sentiva enormemente solo, si sentiva perso.


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Successe un giorno, allora, che il gatto, non potendone più, chiese agli Spiriti della Natura di privarlo dei suoi sentimenti, e quindi del suo dolore, con la richiesta di poter essere sempre accanto alla Fata, ma non provando nulla e davvero nulla per lei. Di poter pertanto aiutarla nel suo compito, senza più esserle di alcun peso.

Gli Spiriti lo presero alla lettera, in fondo l’errore era stato della Natura che, inspiegabilmente, per mano loro aveva sbagliato il tiro, dunque era loro compito rimediare in qualche maniera.

Sicché, lo trasformarono in un peluche, un gatto di peluche senza sentimenti, ma non inanimato, poteva camminare e parlare, però non poteva più amare.

La Fata si frastornò, allorché lo vide nella loro casetta, costruita in un tronco d’albero posizionato al centro di un giardinetto comunale della città, nascosta da un incantesimo. Il gatto era seduto su una piccola sedia a dondolo, tranquillo e beato, osservava il mondo coi suoi nuovi occhi da peluche.

«Sei tu, Minù?» domandò la Fata esterrefatta.

«Sì, mia Fata, sono il tuo amato Minù» rispose placidamente il gatto.

Lei si avvicinò svolazzando e gli tirò un orecchio, poi la coda, gli strapazzò il pelo per capire di che fosse fatto, se l’idea era giusta. Che fosse diventato un semplice pupazzo.

Il gatto si fece fare, del resto non provava più dolore né tanto meno fastidio.

«I tuoi sentimenti erano preziosi, rari… perché hai voluto rinunciarvi?» lo ammonì un pochettino la Fata, ma non dandogli tutti i torti, in sincerità.

«Avevo paura di morire d’Amore» le confessò il gatto, in tutta tranquillità. «E quindi non avrei più potuto starti accanto.»

«Ma ora non potrai più amare, non potrai più voler bene a nessuno?»

«È così.»

Ora fu la Fata a sentirsi morire, per il timore che si era trasformato in realtà.

«Non essere triste, mia Fata» la coccolò il gatto. «Io ora sono felice.»

«Ma come fai ad essere felice!» sbottò. «Se non puoi provare sentimenti…»

«Sì che posso, ma non più sentimenti umani.»

«Allora non mi ami più?»

«Ti amo, mia Fata, ma come si ama un bel fiore, o una dolce melodia.»

© Christine Kaminski | Vietata la riproduzione senza consenso scritto

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